Dedica al numero uno (Editoriale Patient Wolves UNUS, Febbraio 2021)




Perché scattiamo? Come esseri umani intendo.


Perché ci incontriamo in case, in studi o percorriamo le coste del mare del nord, con cavalletti e banchi ottici, su di una vecchia utilitaria o con solo un vecchio paio di scarpe?

Chi ha studiato sui manuali di Claudio Marra non suggerisca, prego.

Seriamente, perché scattiamo? lo facciamo tutti. Chi con estrema leggerezza e disinvoltura, aggrappato al cellulare, chi arrovellandosi sul linguaggio, chi lottando con la macchina per ‘spingerla’ oltre il suo progetto ingegneristico, come ci suggerisce Vilém Flusser, chi per lavoro deve prodigarsi a veicolar messaggi e far marchette. 

Insomma è esperienza comune e sembra essere irriducibile oltre che onnipresente.


Ci penso da quando a quattro anni andavo ad aprire il cassettone con le foto di famiglia.

Perché scattiamo? La mia personalissima risposta è la seguente: 

“E’ una conseguenza del nostro legame con la morte”

Potrebbe sembrar cupo introdurvi a queste pagine così piena di vita parlando di morte.

Questa sensazione deriva dalla nostra ‘cultura’, che vede la morte come un tabù.

Strano, l’unico componente della vita ineluttabile facciamo di tutto per obliarlo. 

Venirci a patti ci terrorizza. Non in tutte le culture è così, ma per noi occidentali si.

Con la fotografia tentiamo di ingannare il lutto. 

Tu ,vita, ci porti via ciò che amiamo? E noi testimoniamo di aver vissuto! 

Consapevoli che il rettangolo materico di carta, con buona probabilità, ci sopravviverà.

Lottiamo come ribelli che non accettano di recidere i legami, per questo scattiamo, per non recidere davvero i legami. E’ un illusione? Si, certo. Ma è una magnifica illusione. 

E’ poesia.


Così c’è chi, con degli scatti, si lega ad un periodo della sua vita, chi alle persone che ha incontrato, annusato e abbracciato, chi all’aria salmastra respirata fronte mare, chi alle vie della città che ama, chi si pone davanti ad uno specchio con un amico che sa di dover perdere.

Questo è un atto sovversivo nei confronti della natura. La fotografia non risolve la morte, neanche i miti ebraici o la pietra della resurrezione pongono rimedio.

Ma impugnare una macchina fotografica, (così come scrivere, disegnare, dipingere, modellare, ecc) è l’atto di sollevare la testa dinanzi al rivale invincibile, guardarlo dritto negli occhi per affermare che il legame lo difenderai. Fino all’ultimo respiro.


lundesnombreux


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