l'algoritmo del consenso

 



Per un momento ho pensato di intitolare questo articolo ‘la panacea’ del consenso, ma subito, l’ambiguità potenziale del termine panacea mi ha fatto desistere.

Così ripiego su un più neutro e contemporaneo ‘algoritmo’ del consenso.

Del consenso ho già trattato nel precedente articolo del diritto autoriale e della ricerca ma desidero sottoporre nuovamente alla vostra attenzione il nocciolo del tema per poi navigare, tutt’altro che a vista, verso altri lidi nella speranza di poterci rilassare, un giorno, cullati dal dolce ondeggio della fonda, fieri delle miglia nautiche percorse.

L’algoritmo del consenso l’ho sempre considerato tutto sommato semplice da apprendere e da applicare. Vuoto per pieno afferma ciò che segue (prendere fiato perché il periodo è lungo): a discapito di qualsivoglia convenzione e/o romanticismo di sorta, in una qualunque iniziale relazione umana è bene chiedere ed ottenere il consenso prima di procedere in qualunque direzione di modo da essere ragionevolmente sicuri di non stare applicando coercizione alcuna nei confronti del nostro interlocutore, il quale è e rimane una persona. Per cui, prospettato il piano si attende educatamente una risposta sotto forma di un no, che vuol dire no, un ni, che vuol dire ancora no, lasciando forse dello spazio per del dialogo, oppure un che vuol dire porre un ulteriore quesito di conferma (con buona pace di ogni romanticismo appunto). 

Fin qui mi sembra proprio che non faccia un plissé.

Questo il lato testa della medaglia, diciamo. Quello del consenso appunto. Prima di scoprire cosa nasconde il lato croce lasciatemi fare una brevissima digressione.

Potrebbe sembrare che il consenso sia affare che riguarda sì due interlocutori, ma più uno dell’altro. Nel senso che la parte proponente ha il compito, ben più oneroso, di sincerarsi di avere il consenso della parte ricevente, appunto. Una sua responsabilità. Ma vorrei sottolineare che tale algoritmo prevede un feedback, una risposta. Tale risposta si è voluta sintetizzare , ni, no, ma tale sintesi è palesemente una semplificazione. Ovviamente le sfumature sulla tela potrebbero essere molte. Compito del ricevente, tutt’altro che semplice, è dare un feedback chiaramente comprensibile. Il no, ni, è a mio avviso tale (chiaramente comprensibile), ma appunto la realtà è più sfumata di un algoritmo per cui il compito di fornire un feedback comprensibile, che sta nelle mani del ricevente, potrebbe essere tutt’altro che banale. Tuttavia è richiesto uno sforzo onde evitare, qui sì, situazioni ambigue. Preciso che stiamo descrivendo una interazione verbale ed è solo in questo ambito verbale che è richiesto lo sforzo.

Questo perché il dialogo, per quanto sia uno strumento inefficace (è fatto noto che venga accolto/passi circa il 5% del contenuto di discorso verbale tra due persone), è uno strumento importante di comunicazione. Forse non il più importante, la comunicazione non verbale (a saperla leggere) spesso trasmette ben oltre il 5% di contenuto, ma già padroneggiare il dialogo migliorerebbe la qualità di vita per molti di noi.

Quindi, ricapitolando, richiedere consenso e fornire feedback è molto importante.

Ma qual è l’altro lato della medaglia succitata? Per provare a rispondere a questa domanda vorrei sottoporne un’altra alla vostra attenzione.

In quali casi saltiamo a piè pari l'algoritmo del consenso?

Mi vengono in mente quei casi di consenso implicito, ad esempio in relazione a persone con cui si ha grande confidenza e che si conoscono davvero molto bene (desideri e paure comprese) e da molto tempo. 

Persone che, ça va sans dire, vorremmo tutt’altro che ledere.

E questo è un primo caso, potenzialmente pernicioso (ma non ne parleremo qui), ma tendenzialmente virtuoso.

Poi mi viene in mente un secondo caso decisamente vizioso.

Questo secondo caso è il potere. Ci sentiamo istintivamente titolati a non applicare l’algoritmo del consenso o detto in modo differente ad essere coercitivi quando sappiamo o siamo convinti di avere molto più potere. E’ qualcosa di molto umano.

L’esempio più banale che mi venga in mente è quello alla guida di un auto. E’ decisamente diversa la sensazione e l’attitudine che avete alla guida se siete su un grosso fuoristrada o se siete su una utilitaria. Banale ma rende l’idea.

Dunque il potere vuole essere l’altro lato della medaglia.

Avere del potere è tutt’altro che negativo, sia chiaro, nessun dubbio in proposito.

Il modo in cui si utilizza questo potere può esserlo, ovviamente.

Avere del potere e saperlo sapientemente dosare al fine di essere costruttivi e mai lesivi è un’arte pressoché sconosciuta alla scimmia nuda (cit Desmond Morris).

Nel senso che l’animale sedicente sapiens sapiens ha un problema enorme con la gestione del potere. Lo applica, l’ostenta, lo fa subire ma raramente lo sa gestire.

Ritengo superflui gli esempi perché non sfuggiranno certo ai miei lettori. Tuttavia basti pensare al depauperamento delle risorse del sud del mondo da parte del nord,

o all’incapacità di riconoscere i privilegi come tali o ancora all’incapacità di ammettere che una nostra scelta può essere, de facto, lesiva nei confronti di qualcun altro.

Abbiamo un problema con il potere e non so se siano più pericolose quelle persone che gridano di non averne sapendo al contempo di poter gridare tanto nessuno le taciterà o quelle che tacitano sapendo di avere ancora molto potere da applicare al momento opportuno. In altre parole la scimmia antropomorfa è veramente una brutta bestia. 

Non dissimile dall’antenato australopiteco che batteva il bastone sul petto.

Nelle relazioni sappiamo dare il peggio di noi. E badate bene uso il termine relazioni nell’accezione più ampia. In quelle affettive ad esempio ancor non ci affranchiamo dal paradigma monogamico romantico che sostanzialmente contempla, nel suo mito, la conquista ed il possesso dell’unico altro partner perfetto. A questo affibbia l’onere (più che l’onore) di essere esaustivo per noi da un punto di vista emotivo, sessuale, sociale e finanche economico. Ah, dimenticavo, affibbia anche l’obbligo di fedeltà. 

L’altro/a è visto/a come una nostra proprietà che deve, sottolineo deve, soddisfare questi bisogni altrimenti...beh, altrimenti non è vero ammmore disneyliano. Sentite anche voi il peso di questa oppressione? Il dover essere o il dover controllare che l’altro sia esaustivo in tutto e per tutto. Una mitologia appunto. Ora, fintanto che si tratta di una libera scelta, profondamente consapevole, di due persone, cosa potrei aggiungere se non il mio silenzio? Ma quando si tratta dell’unico modello imposto, recepito passivamente sin dalla più tenera età, dubito che il silenzio sia la risposta intellettualmente più onesta.

Si evince chiaramente, ancora una volta, che la scimmia antropomorfa ha dei gravi problemi con il potere e con una delle sue declinazioni, il possesso.

Sicuramente concausa di questi problemi è da ricercarsi nel modello sociale che casualmente incontriamo alla nascita, se foste nate in Etiopia probabilmente sareste attualmente prive di clitoride, a causa della pratica religiosa dell’infibulazione, se foste nati nell'Inghilterra vittoriana dubito avreste millantato pubblicamente mirabolanti performance dei vostri incontri sessuali (vedasi L'irruzione della morale sessuale coercitiva, 1934, Wilhelm Reich o ancora Matrimonio e Morale, 1929, Bertrand Russell).

Ma le persone non si possiedono, sono libere ed hanno desideri e bisogni che cambiano nel tempo, c’è poco da rattristarsi e molto da vivere.

Ho visto più volte applicata la patologia antropomorfa del potere anche in ambito fotografico, ad esempio nel rapporto tra musa e fotografo/a ma anche il reciproco. Scusate il termine musa mi fa sorridere, ma tralascerò il tema limitandomi a ribadire che l’incontro fotografico è un incontro paritetico fra persone. Esistono dei ruoli, è vero, ma oltre a questi si è e ci si relaziona sempre a delle persone. Lo ripeterò ad libitum. Così capita di assistere a veri e propri capricci da potere mancato o non riconosciuto, capricci di coloro i quali ritengono le persone che incontrano una proprietà. In fondo è bello fare un salto ai tempi delle elementari di tanto in tanto.

Lo scenario è cupo, lo so. Ma cosa possiamo fare?

A mio avviso la risposta è essere egoisti. Si, avete letto bene, egoisti.

Chiedere, con educazione, ciò che desideriamo. Ascoltare, con attenzione, i feedback che ci vengono dati e soprattutto scegliere le persone con cui condividere fette più o meno importanti del nostro tempo. Allontanandoci da quelle che ci fanno sentire oppressi/e e/o giudicati/e e prediligendo quelle che ci fanno evolvere. 

Fosse anche perché ci mandano in crisi (nell’accezione greca del termine) portandoci a interrogarci su valori che ritenevamo consolidati e marmorei, tanto quanto oppressivi.

Portandoci a valicare, pur poco per volta, la nostra comfort zone.

La fotografia questo fa. Ci pone di volta in volta in crisi. 

Fra gli autori che conosco ho amicizie che ancora oggi dopo tanti anni e dopo aver incontrato decine se non centinaia di persone a fini fotografici vanno in crisi prima di un nuovo incontro e ne escono, fortunatamente, cambiate. Ogni volta. Perché ogni incontro, se paritetico e privo di coercizione, ci arricchisce in qualche misura bi/tri/multi-lateralmente. Quando invece vogliamo ridurre l’altro/a ad una serie di comportamenti stereotipati che riteniamo ci siano in qualche modo dovuti, beh, quello è il caso in cui sarebbe opportuno tornare a casa. La difficoltà sta nel prenderne atto, dell’uno o dell’altro scenario. Da soli facciamo fatica, spesso gli altri, se ci sono amici, possono fungere da specchio e permetterci di vedere ciò che senza uno specchio non vedremmo.

Ma il lavoro finale, su noi stessi, spetta a noi e a noi soltanto.


Spero che sarete egoisti, per nulla convenzionali e che farete molti, moltissimi incontri fotografici con persone molto diverse, applicando sistematicamente l’algoritmo del consenso, sia che abbiate una macchina in mano, sia che siate nudi, sia che siate nudi e vi passiate una macchina fotografica di mano in mano. Passando il tempo nel migliore dei modi possibili: giocando.


lundesnombreux


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