Del ricordo
Chi mi conosce sa che ripeto da anni: "la fotografia non esiste". Un’altra cosa che ripeto spesso è che la fotografia altro non è che il pallido tentativo di sfuggire all’ansia della morte.
Da bambino, prima ancora di aver dato il primo bacio, mi ritrovavo a immaginare come sarebbe stato. Me ne stavo con un walkman ad ascoltare la cassetta duplicata dagli amici, nel piano dei pilotis o nell’androne delle case popolari, sullo stesso cemento liscio dove giocavamo con le biglie, attendendo che gli amici mi raggiungessero. Guardavo la pioggia senza bagnarmi e riflettevo sull’importanza di un primo bacio e su chi ne avrebbe tenuto traccia. Ci sarà il mio ricordo, certo, il suo ricordo, ma non ci sarà una fotografia, ad esempio. E se le sensazioni andassero perse? Come è possibile che un momento così importante vada perso? Il mio, quello dei miei amici, persi per sempre dopo che saranno trascorsi alcuni anni? Ai tempi ipotizzavo l’esistenza un dio delle ‘piccole cose’ che conservasse tutto quel valore, di ogni singolo momento, di ogni singolo soggetto, di ogni singolo elemento e mi rasserenavo così.
Alice mi baciò sul finire di quell’estate e fu il bacio più dolce e intenso che possa ricordare.
Di momenti degni d’essere archiviati da quel dio delle piccole cose ce ne sono stati tanti. In mare con lo zio, il nonno che porta il mio nome che mi issa su un albero di fichi, i viaggi per l’europa con i miei, Davide con noi altri nei boschi di robinie, mio padre in un letto d’ospedale, la statale 583 lariana percorsa solo per la prima volta, gli amici che crescono e si allontanano, i compagni di scuola, le amate, le amanti, i colleghi che ti aprono nuovi mondi, mia nonna che gioca con una fontana sotto una torre del XIV secolo, e mi sorride quasi fosse tornata bambina, il balcone di casa pieno di amici a ferragosto, i giri in bici per boschi o in Milano, il Salento, l'Africa, la Bretagna, la Germania, oh Berlino quanto mi manchi, quest’anno non so se riuscirò a valicare le alpi. E’ stata un primavera dura, durissima, ed ora abbiamo un’estate calma e lenta, coccolata dalla musica classica amplificata dalle valvole. E tutti quei momenti mi chiedo dove siano finiti, mi chiedo se rivivrò qualcosa di simile e se quelli passati siano stati ben archiviati, ordinati per data, da quel dio delle piccole cose. Così capita che il giorno del mio compleanno porti mia figlia con me a vedere una casa in montagna e salendo su verso Carlazzo mi fermi a fotografare il lago del piano da una parte e il Ceresio dall’altra, con la bella Porlezza che fa da frontiera. E ripenso a quando in moto lì ci andavo con la scusa di trovare la ragazza, ma in realtà volevo macinare chilometri d’asfalto, perché li, nel casco, il suono ovattato del motore mi permetteva di meditare, curva dopo curva, con quell’incedere lento ma inesorabile che Alessandro apprezzava tanto. Mi voleva in testa al gruppo per essere sicuro di non prendere multe, salvo poi passare avanti sul Maloja o sul Penice per poter affondare col ginocchio sull'asfalto. Poi tornavo a casa e avevo voglia di rileggere il Manzoni e il Fogazzaro, mi sembra ovvio. Lo so sto facendo un potpourri, non vogliatemene, torno subito in carreggiata. La fotografia, dicevo, ci permettere di raccogliere frangenti, sia quella così detta di ricordo, ma anche quella professionale che pure ci rimanda alla mente il momento, il periodo, i volti che avevamo intorno, amici o meno che fossero. Ma la fotografia mente, per definizione, a partire da ciò che l’autore decide di includere o escludere dall’inquadratura. Non può mai essere onesta, come le persone d’altronde. Anche volendo, non ne hanno la possibilità. E forse noi amiamo tanto la fotografia perché ci riconosciamo in questo suo limite. E allora archiviamo, perdiamo e archiviamo e poi riguardiamo il video o la foto del nostro partner che ci sorrideva, in vacanza, e non sappiamo più dire se sorridesse a noi o alla camera. Sappiamo solo dire, grazie alla fotografia, che qualcosa è successo, anche se non sappiamo più dire cosa. Però è lì, indelebile. No, non nella fotografia che comunque andrà persa quando il sole diventerà una gigante rossa, ma nel passato. Da adulto ho sostituito il dio delle piccole cose con il concetto di realtà. Purtroppo su questo punto duemila e seicento anni di filosofia si spaccano. Ma io la vedo così: Quella, la realtà, è una. E noi, che comunque ne facciamo materialmente parte, non siamo in grado di vederla in modo oggettivo. La vediamo attraverso i nostri sensi, che sono limitati, le nostre esperienze, che sono limitate, i nostri pregiudizi, che sono scandalosamente illimitati. E la fotografia ci fornirà solo l’illusione di procrastinare la perdita, magari di qualche secolo, ma potrà solo mentire, omettere, essere parziale, come facciamo noi del resto. Sia chiaro, sono ben conscio che altri la vedono in modo completamente opposto. Taluni arrivano a concepire l’esistenza di tante realtà quante sono gli osservatori coscienti. Quanto è problematica questa visione. E quanto è pregna di antropocentrismo. Ogni volta che penso a questi individui mi viene in mente il cigno di Popper intriso di petrolio, morente, in un ambiente devastato dalla mano dell’uomo.
Ma allora perché ostinarsi? Siamo diventati così individualisti da non vedere più il valore intrinseco nell’atto di fotografare, anche se compiuto con cognizione di causa, con ricerca. A meno che quella fotografia non ci porti valore diretto di immagine, di visibilità, da spendere su un social o l’altro, è indifferente.
Perché ostinarsi se la possiamo generare l’immagine, possiamo persino farci psicoanalizzare dallo stesso larghissimo modello linguistico che ci genera le immagini e farci consolare col tono di voce che più ci aggrada sentire. Quanto amiamo metterci al centro, pensare a noi stessi come speciali. Ho questa vita qui, è una buona vita? Rispetto a cosa? Eh ma guarda potrei essere come quel soggetto che fa cose fighissime ed è incredibile.
Perché ostinarsi se poi non abbiamo più un momento per metterci in poltrona a sfogliare un libro, meno che mai per leggerne i contenuti. A meno che non sia un libro proposto dalla nostra bolla che rinforza i rassicuranti bias, nella nostra comfort zone.
La realtà dicevo è una, piaccia o meno, lo dico anche a quelli che vorrebbero piegare la quantistica per sottometterla ad una metafisica morente, agonizzante, stantia, putrida, ormai da secoli. E questa realtà ci sfuggirà sempre. E noi non abbiamo neanche gli strumenti per comprenderla davvero. E dunque? Questo significa che non possiamo indagarla? Che non possiamo più fare ricerca? Beh in questi tempi di abusi di potere e genocidi si sarebbe tentati di dire che no, non possiamo più, che la ricerca è morta. Ma non lo posso accettare.
A mio avviso la ricerca, se intellettualmente onesta e non troppo egoriferita, porta verso una convergenza. Non una competenza, non una comprensione completa. Quella non è possibile. Ma una convergenza sì. E convergere è l’opposto di polarizzarsi. Convergere è il suolo fertile in cui creare sinergie. Il terreno sul quale farsi compagnia nella nostra breve vita. La fotografia questo lo può fare. Può quantomeno dare il suo contributo. Così mi piace far convergere i miei ricordi con quelli di chi amo. E lasciare che si facciano compagnia. E mi piace non detestare i ricordi di chi non mi ama più. Anche quei ricordi sono dolci, anche quei ricordi sono amorevolmente archiviati dal dio delle piccole cose.
La realtà è una. Vivendola, magari insieme, la modifichiamo, la facciamo un po’ anche nostra. E una volta vissuta, quella realtà, rimane modificata, da noi, per sempre. Questa è una fotografia che nessun fuoco potrà mai bruciare. E’ un privilegio s’intenda. Modifichiamola bene dunque, modifichiamola con atti d’amore, d’affetto, di vicinanza. Modifichiamola lavorando su noi stessi, anche attraverso la fotografia. Modifichiamola provando a capirci, offrendo supporto, imparando a riceverne.
Così una barca oggi ormeggiata nella laguna a Grado si fonde col Ceresio del me diciottenne, visto in lontananza. Così mia figlia guarda la villa del Balbianello, che da bambina, quando passavamo di lì in barchetta, chiamava la villa degli unicorni, perchè io e Maurizio facevamo finta di avvistarne uno dietro gli alberi del balcone, e lei si issava entusiasta sulla prua insieme al lupo che la proteggeva con sguardo ricolmo d’amore. Così mia figlia mi fa una foto nello stesso posto, ed ho gli occhi chiusi perché la vita è troppo dura per tenerli aperti senza piangere. Riesco ad aprirli ancora solo dentro a un mirino. Ma passerà, perché non nutro rancore per nessuno e riesco ancora a vedere la bellezza nell’acqua placida del mio lago la domenica all’alba. Raccolgo ricordi e li condivido provando nient’altro che gratitudine.