Caro Fotografo

Mi rendo conto che il momento è quello che è, ma quattro chiacchiere tra di noi possiamo ancora farle. Tanto siamo fra pochi intimi.

Ti ho osservato sai? Si, si, fin dagli anni ottanta, quando tiravi su la cler la mattina, mettevi a sviluppare i rullini, stampavi, scattavi fototessere, uscivi per andare nella chiesa di fronte per il battesimo, le comunioni o il matrimonio. Nel meriggio consegnavi qualche pacchetto di ventiquattro o trentasei stampe a quelli come me che, ansiosi, arrivavano al tuo bancone, ti davano le quindicimila lire che servivano per entrare in possesso delle stampe e sbirciavano ciò che tu già conoscevi. Così pronunciavi le consuete rassicuranti frasi: “sono venute non preoccuparti e mi raccomando conserva i negativi che sono più importanti delle stampe”. Dall’altra parte del bancone il metro e dieci di bambino se ne andava tutto contento correndo per arrivare presto a casa dove sfogliare bene ogni stampa. 

Ti ho visto anche durante i commissionati. Lottavi con luci improbabili in ambienti da piccola media impresa, sorridendo mesto in risposta a domande assurde e richieste insensate. Sapevi già cosa avresti fatto per portare a casa il lavoro ma parte del lavoro consisteva proprio nell’ascoltare voli pindarici del committente o di sua moglie o dell’amica del cognato che era un artista. Ti ho visto essere messo a dura prova ma ugualmente caricare il rullino e relazionarti alla tua macchina. Flusser sarebbe stato fiero di come piegavi il programma ingegneristico della macchina per portare a casa la pagnotta. Molto fiero.

Ti ho visto realizzato, grande e a un tempo umile maestro, andartene in giro con pesanti cavalletti e grandi formati. Ti ho visto in mostra o dietro a un tavolo in triennale a tenere la tua lectio. 

Ti ho visto esporre lastre dal costo vergognosamente irriportabile, alla ricerca di una perfezione mai raggiunta. Ti ho visto farti i fatti tuoi lungo le statali con delle medio formato e ancora ti ho visto in studio, attorniato da belle donne che un tempo si chiamavano modelle.

Ti ho visto anche in posti esotici, per riempire copertine di riviste mensili cartacee di costumi da bagno che poi sarebbero finiti anche sui cartelloni pubblicitari statali.

Ti ho visto nelle case a scattare con compatte automatiche scene che oggi chiameremo rough sex e che all’epoca erano avanguardia.

Poi ti ho visto ammodernarti a metà degli anni zero e andare avanti a fare più o meno le stesse cose di prima ma con in mano un sensore e non più una pellicola.

E poi l’orda. La combinazione letale di sensori digitali e social network nascenti. Bastava aprire un profilo e metterci un .ph alla fine del nome. Spesso una loro foto veniva vista, in poche ore, più volte di una tua foto stampata vent’anni prima. Sui muri di Milano si potevano leggere frasi del tipo: “se si dovesse ancora inserire il rullino si estinguerebbero tutti questi fotografi”. 

Dal canto mio, che ho avuto il privilegio di nascere in un mondo chimico, ho voluto usare la cura di scrivere sui miei profili l’egida ‘not-photographer’ ed ho avuto anche la cura di chiedere tariffe TAU aumentate di un buon venti per cento, per i commissionati fatti in ritenuta d’acconto. Sempre più rari perché il lavoro stava scemando già vent’anni fà. Ed oggi, esiste ancora?.

Posso immaginare come ti sei sentito sai? Qualunque stronzo con mille euro da investire in quello che a Roma chiamerebbero un pezzo de fero e altri mille in un vetro che non facesse pietà, poteva spacciarsi per te. Ma non era te, neanche lontanamente. Ma tu la cler l’hai tirata giù. l’hai dovuta tirare giù. Almeno la buona educazione di non auto etichettarsi fotografi, almeno quella ci si sarebbe aspettata e invece, niente. Poi qualche anno dopo dall’avvento del digitale, beffa nella beffa, qualunque ragazzino o ragazzina trovasse una reflex analogica del papà (non è sessismo è che le mamme non scattavano negli anni settanta perché erano schiacciate nel ruolo di regine del focolare, o quantomeno quelle che scattavano erano eccezioni) nel cassetto, recuperava in fretta e furia un rullino, se lo faceva inserire, chiamava l’amica, le metteva l’abitino di pizzo nel prato con le margherite in grembo ed ecco fatto. Poi correva da quel negozietto che ‘ancora’ sviluppava e chiedeva al commesso di togliere il rullino perché “era la prima volta”. Quello paziente gli spiegava anche come farlo, ma la foga era troppa mica si ascoltava. Sviluppo e scansione in un’ora. E poi finalmente la pubblicazione se andava bene su flickr o tumblr, se no era facebook o instagram. 

Ed ecco nato un artista. “Perché il fascino dell’analogico…”.

Ti ho visto, caro fotografo, morderti le mani, bestemmiare a denti stretti per sentire meglio i pezzettoni. Ti ho visto e mi sono rattristato molto.

“Le fotografie godono del miglior momento storico” si affrettavano a ripetere su youtube i più paraculi,  “vengono caricate, pardon pubblicate, milioni di foto ogni giorno”. Oggi miliardi.

E la FotografiA come sta? Come il vino, un bicchiere di ottimo Squinzano doc in una cisterna da autospurghi colma. Vanne a percepire il gusto.

Eh, caro fotografo, non essere triste, pensi che l’editoria sia messa meglio? Pensi che qualcuno legga ancora la domenica mattina in poltrona sfogliando pagine di carta? Pensi che la musica stia benone? Sono solo i tempi che cambiano, non temere, vale per tutti.

Hai ragione, caro fotografo, esistono le eccezioni, i grandi autori, che si sono sempre distinti anche da chi faceva il lavoro sporco di matrimoni e cresime, diventando ateo per la disperazione. Ma chiediti se quelli oggi vivono vendendo arte (la loro) o facendo corsi di formazione per aspiranti clicker di toscaniana memoria.

Si lo so che c’è la nicchia nell’olimpo che ancora tiene botta. Certo come la manciata di magnati che possiedono una ricchezza pari alla metà della popolazione più povera del mondo. Decine versus miliardi. Pare poco bello. 

“Ma come fino a qua sembrava un pezzo nostalgico e mo diventa sociale?”

Per carità, per carità, voglio rimanere sul tema caro fotografo, e non sono nostalgico per nulla, ma mi preme ricordare a chicchessia che la fotografia è così importante per noi animali visivi perché è un pallido tentativo umano di lottare con la morte. Questo è. Poi ognuno la declina secondo il suo linguaggio, la sua competenza e il suo sistema di valori, ma questo è.

O almeno, questo si scorge se appena appena si gratta la superficie. Se ci si concede un attimo di riflessione, di indagine, anche in se stessi. 

Ma pochi lo ricordano, perché l’illusione del potere data dalla visibilità è troppo allettante.

Purtroppo la scimmia antropomorfa ha sete, sempre sete, di potere. Proprio perché ha paura della morte. Così cerca quello illudendosi di poter fuggire l’altra. 

Ingenuo animaletto visivo rinchiuso nel suo circolo vizioso!

Anche essere autori consapevoli è un'illusione, non temere, caro fotografo, ne sono conscio. Perché la materia che ci circonda prima o poi arderà tutta. Ma nel mentre, nel mentre mi chiedo, non si potrebbe puntare a quanta più consapevolezza possibile? “Ma quella è dolorosa” ci gridano già da là dietro. Meglio danzare inebriati da bacco mentre tutto scorre. 

Magari ci fosse della consapevolezza in giro, magari fosse una scelta. La dignità di una scelta. 

E invece non è quella, bensì la mera inerzia, spinta dal sistema, che se si ferma è perduto e se non si ferma si liofilizza dentro Clayton Ravine con uno spettacolare salto della locomotiva fumante, ma con dietro tutti quanti. Quantomeno si  godrà di un punto di vista privilegiato prima del botto.


La fotografia è un rapporto intimo con la morte. E’ un linguaggio di indagine. Uno spazio protetto di incontro. Non è visibilità, invidia, potere, ignoranza. E’ cultura, tecnica e umanistica, insieme. Come vorrebbe Charles Percy Snow.

Non so più cosa stiamo guardando caro fotografo. Apro il telefono e vedo infinite ripetizioni. Ripiegamenti egoici. Adattamenti ai reels, per stimolare l’algoritmo. Come si fa con la povera scrofa, prima dello stupro che la inseminerà.


Caro fotografo, io ti sono grato per il rullino da ventiquattro pose che mi regalavi per farmi tornare due settimane dopo, perché ci sono cresciuto grazie a quei rullini, dato che mamma non me li dava i soldi per comprarne uno nuovo nell’86, e credimi lo so che sono tempi di merda e so come vieni trattato. 

Ma tu devi essere forte, caro fotografo, parlarci ancora di fotografia, come un buon padre di famiglia. 

Parlaci ancora di quanto è importante conservare i negativi più delle stampe, di quanto sia importante essere consapevoli quando si scatta una fotografia, di quanto il linguaggio abbia pieghe profonde e non si limiti al tasto unico dei cellulari. Parlaci della differenza fra fotografie e fotografia. Parlaci dell’importanza del dialogo, con le persone, con i luoghi, con gli oggetti. Parlaci del significato dell’incontro con le persone, con i luoghi, con gli oggetti. Lo so, tu volevi solo fare le tue cose e noi, dopo averti tolto tutto, ti chiediamo di darci la filosofia che hai costruito in decine di anni di lavoro. 

DI trasformarti.

La responsabilità minima che possiamo prenderci è quella di essere degli stronzi.

Ma tu fallo per favore affinché qualcuno, almeno qualcuno, si salvi da questa nuotata nel liquame e possa ripulirsi, asciugarsi e gustarsi un bicchieri di vino rosso. 

L’auspicio è che possa capire e godere della differenza.


un non fotografo, uno dei tanti.






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