Cattivi Maestri

Quando penso alle figure educative, anche a quelle brutte e cattive, il pensiero è sempre accompagnato da una nota di malinconia. Sarà per i miei conflitti irrisolti col passato o sarà il tempo ad applicare le sue tinte edulcorate, chi può dirlo, sta di fatto però, che c’è della mancanza. Probabilmente, volendo essere onesti, è solo la mancanza verso chi o cosa eravamo all’epoca. Tant’è.


Ma qui, ora, parliamo di Fotografia ed in questo ambito è bene, sì, essere onesti.

Il primo assioma di euclidiana memoria dei cattivi maestri è il seguente:

Tutto (o quasi) è già stato fatto.

Vi prego non lasciatevi ingannare da quel ‘quasi’, è un gran farabutto.

Dobbiamo, con un po’ di umiltà, ammettere serenamente che siamo influenzati da chi è venuto prima di noi e dai nostri contemporanei. Siamo immersi nella fotografia forse più che nel reale ed è impossibile sfuggire alla contaminazione reciproca.

Vi dirò di più, non solo è impossibile, ma è anche vitale venir contaminati costantemente. 

Un po’ come giocare da bambini nella terra per costruirsi un buon sistema immunitario. Invece, ahinoi, più e più volte ho assistito a sfoghi egoici di persone che ritenevano di aver, loro e solo loro, una sorta di brevetto su questa o quella tipologia d’immagine.

Il punto è che tizia, caio e sempronia potranno anche, tracotanti di ira, asserire che loro l’han fatto prima e sarà sempre facile trovare fonti antelitteram che smentiscono questa tesi.

Al posto che nascondere le fonti, talvolta anche ignote all’autore, perché non provare il brivido e la leggerezza di sentirsi nel flusso interpretativo umano? 

Senza nascondere alcunché, perché tutto (o quasi) è stato appunto già fatto.

Certo, il punto di vista di ognuno noi è unico ma rimane influenzato, dalle esperienze che viviamo. Fra queste anche una passeggiata in montagna, una mostra, il sesso, lo sfogliare flickr, i libri,  l’abbandono, il mare, l’ira, le risate con gli amici...tutta vita, tutta contaminata vicendevolmente.

Si capisce qualcosa di ciò che sto provando a dire? 

Il secondo assioma dei cattivi maestri, cito testualmente, afferma:

la Fotografia è un linguaggio.

‘Linguaggio’ ci fa subito venire in mente le parole, vocalizzate o scritte che siano. E sia pure.

Tuttavia abbiamo iniziato con graffiti parietali (oltre 40.000 anni fa) che rappresentavano animali, piante e noi stessi, ben prima di incidere i gusci di tartarughe (6.600 p.e.v.) con degli ideogrammi.

Ebbene si, le immagini sono un linguaggio, personalmente azzarderei la tesi che siano diverse lingue. Così, come non vi sognereste mai di parlare in sede adulta come quando avevate trentasei mesi, è necessario governare il linguaggio fotografico prima di andarne tronfi.

Può essere comune l’esperienza di detestare i nostri primi tentativi di comunicare, i primi modi di usare, appunto, un linguaggio che ancora si padroneggiava poco.

Per altro questa esperienza è ricorsiva, il lavoro di sei mesi fa è più accettabile di quello di sei anni fa, ma comunque manchevole di qualcosa che abbiamo oggi.

Poi dopo un numero adeguato di anni subentra la tenerezza del ricordo, l’azione edulcorante del tempo, così da riuscire a guardare il nostro lavoro iniziale sotto nuova luce. 

Una vera fortuna.

I segni, scritti dalla luce su una pellicola o un sensore, hanno un senso, quantomeno per noi e se siamo bravi a comunicare anche per altri osservatori. I segni sono un rimando a qualcos’altro, così come la parola è un indice e non l’oggetto indicato (Ceci n’est pas une pipe)

I segni vanno saputi usare. Altrimenti? Altrimenti si parla come un bimbo di tre anni, il che va benissimo, per il bimbo di tre anni e potrebbe anche andare bene per l’attore che impersona il bambino, ma diventa più complicato veicolare concetti adulti tra adulti. Le lingue sono vive, vanno studiate si, ma anche usate, per migliaia di ore, solo così ne si diventa confidenti.

Per cui, osservare molta fotografia (contaminandoci come da primo assioma) diventa vitale tanto quanto produrne. Ma non basta. Occorre nutrire il linguaggio con l’esperienza di vita diversificata. Leggere (del testo questa volta), materiale relativo agli autori che ci interessano, confrontarci, dialogare, scrivere, sono modi per arricchire il nostro linguaggio.

E non solo quello fotografico. Per cui diamoci alle biografie, ai libri autoriali (anche fotografici), ai talking online e traiamo spunti, fosse anche solo per dove andare a fare una passeggiata riflessiva. Tutto ciò evolverà il nostro linguaggio.

L’ultimo assioma... aspettate che vado a scartabellare...ecco, asserisce:

Chi definisce il livello?

Come dite? Non è un assioma? Pretenziosi, sono mica Euclide io, li ho finiti gli assiomi, ok? 

E’ un quesito, avete ragione, ma non è un quesito banale. 

Chi definisce se Tizio, Caia o Sempronia usano bene il proprio linguaggio? Se veicolino contenuti potenti o meno? Se padroneggino magistralmente quella lingua e/o quell’altra?

Proverei a suddividere il tema, ma voglio essere onesto con voi, non ho una soluzione, solo un ragionamento ad alta voce (per iscritto) da condividere.

Dicevo che proverei a spezzettare il problema in significante, significato e contenuto. (Perché separare significato e contenuto proverò a motivarlo sotto)

Se, ad esempio, Tizio padroneggia il significante, significa che Tizio potrebbe fare fotografia tecnicamente ineccepibile ma che non ci pungola per nulla, ci lascia indifferenti. La forma materiale, sensibile, della sua immagine potrebbe essere stampata tre metri per due e risultare perfetta per nitidezza e cromatismi senza che questa ci porti in alcun dove. Qui il livello potrebbe essere definito tecnicamente, ma sarebbe una definizione sterile, monca.

La competenza tecnica è importante, nessuno può esserne avulso, facciamocene una ragione. Tuttavia, pur necessaria rimane altrettanto insufficiente. 

La tecnica va saputa usare, tutto qui, come un jazzista che conosce bene la musica e i tempi e li stravolge, li fa capitombolare, per poi farci ritrovare in piedi alla fine del giro. Ma ben prima di produrre ciò che a un orecchio ingenuo può suonare storto, sa esattamente dove vuole portarci e come farlo. Padroneggia la tecnica e può permettersi il lusso di forzarla, piegarla o lasciarla fluire a suo uso e consumo. Anzi ad uso e consumo del significato.

Se, sempre ad esempio, Caia padroneggia magistralmente il significato è già più fortunata di Tizio, perché la padronanza del significante la si può acquisire al più con dell’olio di gomito.

Ma il concetto che vuole rappresentare, l’astrazione dello stesso, gli appare limpida e può provare a veicolarla. Ha qualcosa da veicolare e forse ha anche il bisogno di farlo. Caia è spinta da un moto interiore indefinibile e questo moto è una ricchezza per lei e forse anche per noi.

Qui il livello è più difficile da definire, contando inoltre che ho voluto separe significato da contenuto. E l’ho voluto separare perché se il significato è l’immagine mentale che ne ricava l’osservatore, questa è profondamente legata ai valori dell’osservatore. Segue l’esempio.

Dunque, Sempronia, la quale la sà lunga, padroneggia magistralmente significante e significato nelle sue immagini, dilanianti per l’osservatore, che rappresentano la pratica dell’infibulazione femminile in tenera età. La delicatezza e l’efferatezza insieme, miste al tipo di luce, ai colori, quel rosso, una coltellata quel rosso e quanti verdi e bianchi a bilanciare quella ferita? Una padronanza magistrale e un tema del genere! Che Donna, che maestra! E come è possibile ottenere quella gamma dinamica, curarle anche quello, in quel contesto?

Ed ecco che il Segno, costituito da significante e significato è tratto. E’ lì, lo si osserva.

Ma personalmente non sono d’accordo. Ciò che si osserva è sì il segno, ma ritengo che sia la sommatoria del significante e del contenuto. Il significato invece, l’immagine mentale che ne deriva è differente se Sempronia è un membro attivo della comunità che ha praticato l’infibulazione e ne sta dunque lasciando un fiero segno per i posteri (ai quali veicolare i valori di quella comunità) oppure se Sempronia sta facendo una denuncia di quella pratica che ritiene inutilmente violenta e insensata. L’immagine mentale che ne deriva è molto diversa, ma il contenuto, l’infibulazione, non cambia. Cambia il sistema di valori con cui si osserva il segno.

Ed ecco che non abbiamo ancora risposto alla domanda/assioma, ma abbiamo (forse) definito qualche concetto.

La risposta alla domanda: Chi definisce il livello? è per taluni: il mercato. Per qualcuno la risposta a qualsivoglia domanda è ‘il mercato’. Il mercato usa a mio avviso un paradigma profondamente viziato. Lungi da me volerlo invalidare completamente ma mi sembra doveroso piazzare una bandierina di alert su questo territorio lunare, tutt’altro che inesplorato.

Il mercato veicola ottimi ‘prodotti’ al fianco di altrettanto ottime ‘oscenità’. Chi definisce cosa sia l’una o l’altra cosa, ancora una volta ha attinenza con i valori e la ‘cultura’, più che con i fatti.

Per altri la risposta ha carattere emotivo. la tua opera, caro Autore, mi pungola, mi colpisce, mi rapisce, mi porta altrove ed ecco che mi ritrovo a desiderare di essere in compagnia di tale opera. Questo approccio è appannaggio del regno limbico ed è per definizione, inopinabile.

C’è poi una risposta che tipicamente giunge dal lato autoriale: “Il mio bisogno definisce il livello” può affermare l’autore, “talvolta è una necessità così profonda che l’opera deve rimanere solo con me, per me e non vi è cifra economica o giudizio esterno che possa scalfire questo legame”. Anche questa è una risposta emotiva e come tale, condivisibile o meno che sia ritenuta, va presa. 

Ma dunque, che soluzioni ci sono? Non lo so. O quantomeno, non ne ho trovate. 

Se ne avete scrivetemi, per favore.



I cattivi maestri ci capitano ma più spesso ce li andiamo a cercare. Qualcuno direbbe che ci andiamo a cercare i nostri traumi. Spesso dopo un periodo iniziale di apprendimento, nel quale pendiamo letteralmente dalle labbra del nostro mentore, ci accorgiamo di essere entrati in adolescenza. Siamo cresciuti, abbiamo imparato e vogliamo far meglio, di più, in modo diverso ed il mentore diventa, da guida che era, un ostacolo. Così ci tocca uccidere (metaforicamente) quella figura materna/paterna che ci ha accompagnato. Diveniamo Edipo, salvo poi piangere, inevitabilmente, la perdita del mentore e la sensazione di sicurezza che ci dava. 

Vorrei spezzare una lancia a favore dei Mentori, dei cattivi maestri così come li ho definiti: Raramente questi costituiscono una minaccia o un ostacolo, non foss'altro che ci hanno portato lì dove siamo. Se avessero voluto soffocarci l’avrebbero fatto in fasce, gli veniva più comodo, non vi pare? E invece ci hanno accuditi.

Coi loro limiti certo, magari diventando vecchi, magari smettendo di capire lo zeitgeist, tutto plausibile. Ugualmente non serve ucciderli, possiamo al più non andare più a trovarli, oppure, più educatamente, goderci con loro qualche tramonto, con una birra ghiacciata in mano. 

Gli farà piacere.

Personalmente sento un senso di gratitudine, verso i miei mentori. Quelli attuali e quelli del passato. Nessun moto di disprezzo per nessuno di loro, nessun desiderio di annientamento loro è funzionale alla mia autodeterminazione. Solo gratitudine e talvolta anche pace, ricordandoli nel loro ambiente naturale, con quel sorriso indecifrabile e tanto ancora da dire.


Grazie Cattivi Maestri.


lundesnombreux


 




Commenti

Post popolari in questo blog

l'algoritmo del consenso

La fotografia non esiste (Editoriale Patient Wolves TRES, Settembre 2021)