delle morali universali, del valore autoriale (settembre 2020)

 

Ed eccoci, domani mia figlia riprende scuola (post covid), la cartella è fatta, i compiti con un po’ di solleciti sono in via di chiusura, i lupi sono stati portati a spasso ed hanno mangiato (oggi facciamo anche dog housing e abbiamo la compagnia di una terza, anziana, cagnetta) e sonnecchiano quieti qui dietro di me che scrivo. Così prima di preparare il pranzo domenicale, rigorosamente vegano, mi fermo a buttare giù questa riflessione che ho in mente da qualche giorno.

Ebbene è successo anche a me, il profilo instagram @lundesnombreux è stato chiuso.

E’ accaduto Giovedì 10 Settembre alle 14:30, come fulmine a ciel sereno, as usual.

E’ successo a molti amici prima di me, ne abbiamo parlato e riflettuto insieme varie volte ed è un evento che sta nel gioco delle parti della vita social.

Va preventivamente messo in bilancio.

Vi preannuncio che il mio è tutt’altro che un post di lamentela o autocommiserazione.

Vuole essere una riflessione condivisa e dare, se possibile, qualche informazione.

Ma facciamo delle premesse.

@lundesnombreux su ig nasce nel 2012, (prima esisteva solo su flickr, facebook, tumblr). I primi anni come diario, poi subisce un reset nel 2014 e diventa ciò che per molti è un profilo ig e cioè un biglietto da visita, un portfolio online ed uno strumento di garanzia nelle pubbliche relazioni oltre che, naturalmente, lo strumento fondamentale di autopromozione del proprio lavoro autoriale, dei propri contenuti visivi.

Così mi metto di buzzo buono e veicolo quello che è il mio linguaggio autoriale con dei codici precisi, per esempio sempre due-terzi bordati di bianco per lo stream, tendenzialmente una foto al giorno verso la tarda mattinata, poi con l’introduzione (negli anni) delle stories anche qualche story al giorno, sempre con del mio materiale di repertorio, sempre in due-terzi ma questa volta inclinate di novanta gradi e ritagliate (perché lo schermo dei cellulari è un rettangolo ben più allungato del due-terzi, spesso è un diciotto-noni). Mi piaceva l’idea che per vedere e capire l’immagine, l’osservatore dovesse fermarsi un attimo e inclinare lo schermo. Qualche volta rigiravo stories o stream di autori/amici o qualche contenuto a carattere ‘veg’, ma pochi, per rimanere leggero. La pedanteria paga poco.

Ma quali sono questi contenuti? L’ultimo ad averne parlato ufficialmente è stato stern.de

https://www.stern.de/fotografie/akt/eine-aktstudie-im-stile-einer-milieustudie-6678998.html )

se avete dimestichezza col tedesco, prego. Ci sono un po’ di press reference in giro su di me ( http://cargocollective.com/lundesnombreux/press ne raccoglie qualcuna) se avete voglia di curiosare, ma vorrei provare a fare una sintesi di calviniana memoria, senza la pretesa di paragone alcuno.

Quando ho iniziato l’attività di lundesnombreux era il 2006. Facevo foto già nell’86, ma nel 2006, padroneggiando bene il tema tecnico (fosse esso chimico, digitale e/o informatico), mi sono messo in testa di affiancare al mio lavoro “A” una attività di fotografo (semi)professionista, un lavoro “B”.

Avevo la fortuna di potermi avvalere di uno spazio/studio di proprietà della mia famiglia e così dopo qualche ‘test’ ho stretto rapporti con un paio di agenzie (che non citerò qui) e con alcuni privati. Per le agenzie facevo book/composit e (proto)set tematici, per i privati ho fatto matrimoni (a ripensarci mi si gela il sangue), eventi e qualche still life. Model sharing e microstock a corollario del tutto. Per un periodo ho anche collaborato con una rivista di moto (preferisco non citare neanche quella, anche se non esiste più). Ero un mototurista con una certa esperienza, avendo quasi duecentomila chilometri di viaggi alle spalle, e venuto a contatto con la redazione e fattomi conoscere sono riuscito a strappare qualche compito divertente. Ad esempio portare le moto da recensire in Svizzera, Austria o Germania per fotografarle mentre venivano testate dal giornalista.

Lo ricordo come un periodo piacevole, più che per la produzione fotografica, per i viaggi fatti.

Con tanto di rimborso, come si usava quando esisteva ancora il mestiere del fotografo.

Tuttavia, dopo tre anni di queste attività, mi ritrovavo con i testicoli frantumati (è francese, non me ne vorrete, mi aiuta a rendere il concetto comprensibile).

Mi sono detto: “Se la fotografia deve essere questo, un secondo cartellino da timbrare, un lavoro a cottimo, allora non ne vale la pena”. Volevo smettere. Avevo investito poco o nulla di mio, perché il lavoro fotografico mi aveva consentito di pagare i materiali (macchine, lenti, sincro flash, fondali, etc) per cui potevo uscirne in pari se non in positivo e volevo uscirne.

Sostanzialmente perché la fotografia “professionale” non mi arricchiva per nulla umanamente, semmai tecnicamente, ma è noto che, per quanto si possa sempre imparare qualcosa, la tecnica è uno strumento.

E’ la padronanza del linguaggio e dei propri contenuti che conta. Ad averli, ovviamente, contenuti che abbiano valore per noi stessi, fosse anche solo per noi stessi.

Ed io stavo ripetendo schemi già visti e che molti altri sapevano fare anche meglio di me.

Avevo già smesso di scattare fotografie una volta, nel ‘95, dopo la morte di mio padre ed ero stato letteralmente fermo per oltre dieci anni.

Quando ero un bambino (nell’86) facevo davvero Fotografia, per me, come atto egoistico.

Non si contano gli schiaffoni che ho preso da mia madre al grido di:

“Sono stufa di spendere venticinque mila lire per sviluppare foto di barche, porticcioli e gambi di motori fuoribordo. Se devo spendere questi soldi voglio delle foto di famiglia, belle e in ordine, quando siamo vestiti bene la domenica e andiamo da qualche parte oppure le foto che servono per lavoro a tuo padre e nient’altro! Non voglio più vedere questa robaccia. A chi serve questa roba!? Basta!!!”

Eh... Sbam, scappellotto sulla testa di un bambino di otto, nove, dieci etc anni. Sì perché perseveravo e dunque dovevo essere in mano al demonio. (Per la cronaca oggi esiste @finanthropomorphique http://www.instagram.com/finanthropomorphique ).

Ma torniamo a lundesnombreux.

Dicevo che dopo tre anni di fotografia a cottimo (del 2006 al 2009) volevo chiudere tutto e al più continuare a fare qualche foto, delle mie, nelle passeggiate domenicali e invece successe qualcosa.

Due cose in particolare: La prima fu lavorare come assistente di alcuni fotografi professionisti, uno dei quali, non è un segreto per chi conosce il mio lavoro, mi fece svoltare, mi illuminò letteralmente o, come amo di dire, mi fece ‘scollinare’. Ancora una volta non vogliatemene se non cito qui il nome di colui che mi fu mentore. L’ho citato in mille altre occasioni, preferisco che questa rimanga una riflessione personale e tirare in mezzo meno soggetti possibile.

La seconda fu l’incontro con alcune modelle/i ‘alternative/i’, come si chiamavano all’epoca, che mi proposero di scattare per ‘noi’, autonomamente, in momenti differenti da quelli in cui scattavamo per l’agenzia. Da questi semplici fatti appresi cosa era, per me, fare Fotografia. In altre parole appresi cosa mi faceva stare bene nel fare Fotografia e con stupore mi accorsi che questo ‘modus’ faceva stare bene anche il/i mio/miei interlocutore/i.

Di cosa sto parlando?

Della sospensione del giudizio, ovviamente, dell’epochè. Primo fra tutti quello più efferato, quello rivolto verso noi stessi e immediatamente dopo quello verso il nostro/nostri interlocutore/i.

Ho smesso di incontrare modelle/i ed ho iniziato a incontrare persone.

Quindi cosa si faceva in un set?

Semplice, non c’era nessun set.

Negli ultimi dieci anni ho incontrato (e scattato) oltre duecento differenti persone.

Fa una media di venti persone all’anno, quasi due al mese, nei mesi produttivi e contando i re-incontri. Come vi sembra come numero?

Ve lo dico io, il numero è irrilevante, potrebbe essere un decimo o dieci volte tanto, ma le persone, quelle sì che sono state rilevanti. Eccome!

Hanno letteralmente cambiato la mia vita ed io, forse, ho dato qualcosa a loro, oltre alle foto.

Non per tutte ben inteso, qualcuna era meramente interessata ad avere le immagini ‘di’.

Direi che è lecito anche questo. Però porto con me un bilancio estremamente positivo di tutti questi incontri. I dissapori che ho potuto vivere si sono limitati a posizioni del tipo:

“Avevo voglia di esprimere il mio diritto ad espormi attraverso le tue immagini, fottendomene delle convenzioni sociali solo perché è mio diritto farlo, ma poi ho trovato un partner che non è d’accordo con questa mia libertà di espressione per cui, anche se hai una liberatoria in mano, ti spiace se non ne pubblichi più?”

Certo che ti accontento, posso anche dissentire dalla tua ‘nuova’ posizione ma generare entropia nella tua vita è l’ultima cosa che desidero. Aggiungerebbe zero valore alla mia.

Occasioni di questo genere si contano sulle dita di una mano, forse sono anche troppe le dita di una mano. Sta nel gioco delle relazioni umane. E’ comprensibile. Ma sono così limitate che appunto riporto un bilancio estremamente positivo, fatto di persone che sono cresciute, che sono diventate avvocati, architetti, psicologhe, madri, modelle/i, artiste/i e che ho incontrato e scattato più volte nell’arco degli anni, aggiornandoci sulle rispettive vite, condividendo visioni filosofiche o provando, quando possibile, a elaborare insieme le varie vicissitudini capitateci nel corso del nostro ‘vivere’.

Potrei scrivere un libro su questi incontri e chissà, forse un giorno lo farò.

Sì ma cosa accade in un non-set?

Semplice, per lo più si parla, davanti alla stufa a legna dello studio, con un tè caldo in mano, per ore, poi ci si ricordava di voler fare anche qualche foto e si procedeva in completa epochè.

E cosa c’è nelle foto?

Beh i risultati li si potevano osservare, quotidianamente appunto, nel profilo pubblico @lundesnombreux ( http://www.instagram.com/lundesnombreux/ ), oggi soppresso.

Definirlo a parole è dura ma ci provo.

C’è nudità, perché la nudità è di per sé un atto di forza e di onestà, c’è libertà di espressione, talvolta dominanza/sottomissione, la mia o di altri soggetti, c’era il sorriso di chi sa di poter e voler giocare in quella che è stata ben definita come una ‘bolla’.

Una bolla temporale e sociale in cui si sospende il proprio giudizio verso se stessi e verso l’altro. Una bolla che come base strutturale deve avere il consenso, ovviamente, ma più ancora, il piacere e la voglia di stare lì, col fine ultimo di fare della Fotografia o più umilmente, di lasciare una traccia fotografica che parli dell’incontro.

Per dire, su un profilo pubblico, che è possibile essere lì, così, divertendosi e giocando, letteralmente, senza che da questa intimità e confidenza ne consegua dell’attività sessuale. Impensabile in una società sessuofobica e benpensante come la nostra, ancorata al giudizio e alla cultura della colpa.

Ci si incontrava per dire che si può indossare o rimuove una coppetta mestruale davanti a un interlocutore con una macchina fotografica in mano. Per dire che si può essere pelosi se ci piace esserlo, o glabri se preferiamo. Per dire che possiamo essere lì vestiti a parlare di filosofia o zampettare nudi per lo studio o in case private, soli o con il nostro (o i nostri) partner o con i nostri amici, senza che nessuno abbia il diritto di dire cosa è giusto o sbagliato di ciò che stiamo vivendo.

Solo perché scegliamo noi di farlo ed è, a nostro insindacabile giudizio, bello da vivere. Tanto che ci piace mostrarlo pubblicamente a chi pensa che no, non si può, non sta bene, non va bene o non è decoroso.

E se non ci piace fare nulla del genere? Beh, beviamo il tè, ovvio.

La mia fotografia non avrebbe senso senza la voglia di sentirsi sollevati da ogni giudizio e senza la voglia di reagire che una morale coercitiva applicata fin dalla più tenera età ci lascia addosso. La mia fotografia è scevra da tale coercizione, anche se solo per qualche ora.

Se c’è un valore sociale in questa ricerca è esattamente in quanto sopra esposto.

Se c’è un nemico di questa tipologia di ricerca è esattamente il monopensiero.

La verità rivelata da cui scaturisce, per chi sogna questa forma di egemonia, la norma morale universale.

Dunque, nudi sì, atti sessuali talvolta, magari fra partner stabili o occasionali, questi mai rappresentati sui social. Fotografia talvolta intimistica di persone dalla sessualità differente, sfumata e variegata. Sempre tutto rigorosamente pubblicato previa autocensura applicata secondo linee guida della comunità (mi fa sorridere che le definiscano della ‘comunità’, quando una parte della comunità detesta la censura e auspicherebbe un semplice multi-livello di accesso ai contenuti via via più ‘sensibili’ in tutta sicurezza). Una censura bianca, a pennellata piena e coprente ad alto contrasto, palese, ben visibile, sia da un algoritmo abbastanza scaltro che rintracci path d’immagine appresi in machine learning sia per una persona preposta a tale controllo.

A che io ricordi mi sono state rimosse alcune stories, tipicamente stories pubblicate e censurate da altri con mio materiale che rigiravo fra le mie per fare un po’ di push, senza controllare adeguatamente l’altrui censura. Errore mio.

Mi sono state anche rimosse due foto dallo stream, una nel 2016, una coda di volpe (sintetica ovviamente) inserita tramite un plug, inquadrata dal fianco, mentre vulva, ano o glutei non erano visibili. Ma l’atto di indossare un plug è sessuale e dunque ha senso che sia stata rimossa e l’errore rimane mio. Lezione imparata. Una seconda foto mi è stata rimossa recentemente, il seno di una amica preso in mano dal suo fidanzato, nascosto dietro di me. Nelle due foto del post, che sono come due frame cinematografici consecutivi, si evince prima che stavo palpando una tetta a un'amica/modella e si scopre l’arcano nel secondo frame dove si palesa un terzo soggetto (un amico/fotografo e partner della modella) nascosto dietro di me. Nel secondo frame erano presenti le risate palesi di tutti e tre i soggetti. Neanche lo spirito ludico della doppia foto è stato sufficiente a renderla scevra dall’etichetta di ‘atto sessuale’. Ad ogni modo, questo pure può essere imputabile ad un mio errore di valutazione.

Sono stato redarguito un paio di volte dunque, a distanza di anni, e poi gli otto anni di lavoro sono stati resi inaccessibili, sotterrati, in un momento. Ufficialmente per i seguenti motivi:



 

Ora, cosa o chi definisce un contenuto come sessualmente allusivo? Le potenziali risposte a questa domanda mi turbano, sappiatelo. Perchè una risposta oggettiva è impossibile.

Un/a ragazzo/a che mangia un frutto come una fragola o una banana è allusione sessuale?

Probabilmente per qualcuno sì.

Un paio di piedi eleganti in calzature fascianti che lasciano gran parte della pelle scoperta è allusione sessuale?

Per qualcuno è direttamente materiale masturbatorio, ben oltre l’allusione dunque.

E cosa vogliamo dire delle milioni di ragazze che, per loro insindacabile volontà, espongono il loro corpo in differenti fantasiosi modi? Talvolta hanno milioni di follower. Le vogliamo forse accusare di allusioni sessuali? No vero!? Perchè dovrebbe essere oramai pacifico che chiunque può esporsi come più desidera, magari con una bibita in lattina fra i seni o prona per meglio far risaltare i propri glutei e questo non consente a nessuno di noi di poter giudicare quel comportamento come allusione sessuale o peggio come incitazione all’interazione sessuale. Corretto?

A mio avviso è molto corretto. Per intenderci l’avvocato nudo sull’internette è, e rimane, un professionista degno di rispetto e valutabile per la qualità con cui svolge la sua professione e per i risultati che ottiene ma non per la sua esposizione nudo/nuda o finanche con una frusta nello sfintere come Mapplethorpe, su di un libro, in un quadro, su di una rivista o in social network.

Dunque chi definisce cosa è sessualmente allusivo? A mio avviso è un’asticella soggettiva che puoi spostare su o giù in funzione dell’interlocutore a cui poni la domanda.

La risposta deriva dalla sua età, dalla sua cultura, dalle sue credenze, dal suo sistema di valori, dalla sua terra di origine, dai suoi potenziali traumi infantili etc.

Potrei sviluppare tematiche simili anche per le altre due voci ma vorrei fermarmi a un certo punto, perchè ipotizzo di aver esposto sufficientemente la mia tesi che è, in sintesi:

“La nostra morale è personale e non può essere resa universale”

Casualmente, questo aforisma, è stato anche l’ultima mia story postata sul profilo @lundesnombreux prima del ghigliottinamento.

La nudità la puoi classificare anatomicamente, ad esempio non si deve vedere la vulva, niente labbra o clitoridi, oppure niente peni o testicoli, ma se non fai la ceretta da vent’anni (e posso solo apprezzarlo) e il pelo non è contenuto dal tuo tanga ed è visibile è tutto ok.

Converrete che è comprensibile, i limiti e le indicazioni sono palesi. Condivisibili o meno, ma palesi. Si sa quale superficie dovrà essere coperta e resa imperscrutabile (alimentando un tabù) dalla censura. Una censura bella netta e contrastata, mi raccomando, ché gli algoritmi son duri di comprendonio. Poi ci sono assurdità come i capezzoli: maschili sì, femminili no. E’ sessismo puro e fa schifo ma la norma è chiara, quelli li censuri, gli altri no (per inciso, nell’ultimo periodo mi sono messo a censurare anche quelli maschili. Mi sembrava sensato e allineato al livello di idiozia sociale, la loro idiozia, sia chiaro).

“Mio dio che paura il capezzolo femminile, quello maschile invece? Beh, è molto più elegante col suo bel pelo, ça va sans dire.”

E dunque ci troviamo di fronte ad una spada di Damocle e non ad una norma. Decidessi io sposterei l’asticella al massimo, lasciando passare di tutto per chi ha la maggiore età e mettendo solo un disclaimer a tutela dei più ingenui; se decidesse ancora Roberto Bellarmino, ci manderebbe tutti al rogo con lingua in giova. Oggettività della norma: zero.

Ora, Io non avevo milioni di follower, nel mondo social ig il mio era un profilo molto modesto: 12,2k follower.

E questo è l’ultimo screen che ho potuto prendere:



Mi sono chiesto:

Cosa significa perdere un profilo che curi da otto anni?

Significa perdere un lavoro che portavi avanti quotidianamente da otto anni.

Un lavoro non retribuito ma che si configura in tutto e per tutto come tale. C’era la produzione, l’organizzazione dello studio o gli spostamenti per raggiungere i soggetti, poi l’editing, la post, la ricerca grafica, cromatica, la ricerca/conferma del benessere delle persone rappresentate, che non avessero ripensamenti insomma. Le interazioni social e il dialogo con le persone interessate a capire come funziona un set (che non è un set) per gli incontri futuri. Un bel da fare.

E dunque perderlo significa avere tempo, recuperare tempo, prova ne sia questo mio testo che qualche quarto d’ora lo sta portando via.

E cosa significa avere un profilo da anni con oltre dodicimila follower (è inutile che vi dica che pur essendo un informatico di formazione me ne sono guardato bene dall’avvalermi di truschini pompa follower vero?). A questa ho risposto all’inizio: significa avere un biglietto da visita, un portfolio online ed uno strumento di pubbliche relazioni, del quale si fanno garanti dodicimila duecento persone.

Una garanzia sull’esistenza dell’autore, non sulla qualità, l’etica o bontà dello stesso.

Quindi lavori gratis per instagram, che veicola pubblicità a te e agli altri e in cambio hai questi tre strumenti di lavoro, che nella migliore delle ipotesi ti permetteranno di continuare a lavorare e nel mio caso ad incontrare le meravigliose persone a cui ho accennato sopra.

La galoppata fatta fino a qui su @lundenombreux mi ha ripagato in cultura, esperienza, amicizia, legami affettivi, scambi professionali, confronti per lo più costruttivi e molti, sentiti e profondi abbracci. Quelli da ripartenza.

E ne sono molto, molto, contento e soddisfatto.

Ma adesso chi certifica la mia esistenza come autore?

Gli amici certo, le persone che ho incontrato anche (fanno eccezione gli hater chiaramente), i colleghi da cui ho appreso o che hanno appreso da me, le persone che mi hanno fatto esporre o che hanno parlato di me su un magazine online.

Ma chi racconta, con un colpo d’occhio, a chi ancora non mi ha conosciuto né incontrato, che il mio valore autoriale e il mio percorso professionale esistono e possono essere valutati?

E il mio pensiero su me stesso, sulle mie qualità o competenze acquisite in questi anni, quanto viene inficiato dalla caduta della scure del social di comunicazione visiva ritenuto più importante a livello internazionale? Vacillo.

Certo, so chi sono ma come faccio a proporre alcunché o a ricevere proposte di qualsivoglia natura se non ho un profilo che parli di me con un linguaggio riconoscibile e preciso?

In altre parole, esiste una alternativa più intellettualmente onesta di instagram?

Come dite? Il sito personale? Siete seri? Come nel 2006? E chi va a vederlo?

Chi parte da un social e incuriosito da ciò che vede vuole approfondire.

E da quale social si parte? Senza prenderci in giro quel social si chiama, oggi, instagram.

1x, 500px, eyeem, behance, deviantart, flickr, il defunto tumblr sono strumenti diversi, principalmente più orizzontali (da autore ad autore), (quasi) ininfluenti verso le persone che si affacciano e si interrogano sulla possibilità di essere ritratte e possono provare interesse per un linguaggio simile al mio. Che - per inciso - non è solo mio, c’è chi vede un principio di movimento culturale in svariati (e molto bravi) autori. Inoltre, tali social, patiscono loro stessi politiche moraliste sempre più stringenti, forse con l’eccezione di deviant, che ha ancora un meccanismo a livelli di sensibilità come quello che fù di flickr.

Ha senso dunque apportare nuovamente i propri contenuti (che chiaramente sono una goccia nel mare) in una piattaforma della quale non condividi i modi, la morale e il despotismo, sapendo che così facendo contribuirai (sempre in termini di gocce nel mare) a farla crescere e a veicolare più pubblicità su più utenti che sono lì (anche) per i tuoi contenuti? Non ho una risposta.

Trovo inquietante l’assenza di alternative paragonabili e trovo sensata la scelta di quegli amici che hanno aperto un nuovo profilo, e poi un altro e poi un’altro ancora, sostanzialmente per rinnovare l’accesso ai famosi tre strumenti citati sopra.

Trovo inquietante anche solo la sensazione di dover riflettere sul mio valore autoriale pre e post disabilitazione di un profilo social.

C’è qualcosa di molto malato in tutto questo, eppure la domanda me la pongo.

Chiaramente, il valore che mi attribuisco come autore non viene scalfito minimamente da un evento simile, ma le mie possibilità di comunicazione vengono oggettivamente (quasi) rase al suolo. E ad oggi esistiamo solo se comunichiamo. E’ terribile, ma rimane un sic est.

Esistono strumenti di difesa?

Ammetto di aver fatto un esposto alla Data Protection Commission di Dublino su consiglio indiretto di un legale e di una amica, vedremo cosa risponderanno alla mia istanza, ma la sensazione che ho è di essere indifeso.

Questa cesura si configura, per me, come un attacco morale da parte di un sistema che è tutt’altro che privo di violenza psicologica intrinseca. Un sistema (so)spinto da meccanismi automatici o forse dalla frustrazione di individui che pensano di poter universalizzare ed imporre la loro morale. Un sistema che applica quindi un unico pensiero, il quale può avere molti pesi e molte misure, in funzione di quanta influenza tu abbia e di quanto guadagno potenziale puoi portare.

Se fossi un idealista direi che dovremmo uscire tutti da sistemi del genere e avvalerci prima di tutto di rapporti umani diretti e poi di almeno altri dieci social, differenziando e rimanendo magliati, collegati, vicini e possibilmente quanto più liberi possibile di esprimerci.

Saltando fuori da quelli che minacciano oscurantismo e censura.

Ma chi mi conosce sa bene quanto io sia lontano da qualsivoglia idealismo.

Prendermi del tempo per riflettere è qualcosa che farò, sicuramente.

Son giunto a conclusione, siete provati, ammettetelo :)

Ho scritto, così come scatto, più per me che per altro. Una forma di riflessione, proprio come la fotografia appunto, ma grazie per essere giunti fin qui e grazie per aver seguito, fino al dieci settembre, @lundesnombreux.

hug

lundesnombreux@gmail.com


instagram.com/lundesnombreux.wp/

                                                     
p.s. Se non l'avete ancora fatto guardate: “Mapplethorpe: Look at the Pictures” (2016)

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